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mercoledì, maggio 11, 2011
martedì, settembre 28, 2010

Ci sono delle serate che sono così stanca, che la fatica della testa si trasferisce tra il collo e l'ombelico, con quello che mi viene da definire un dolore al petto, se non sapessi che poi mi trovo tutti i commenti paranoici che dicono Angina? Sistole? Extrasistole? Fischio ai polmoni?
E allora non dico che è dolore al petto, però è come se la fatica della concentrazione, dell'ansia di parlare in un tavolo con i più infidi massoni e i più sgamati politici e i più intrallazzoni cooperanti, pesando ogni parola, assaggiando in un angolo ogni pensero, per non dire la cosa sbagliata, per non esporsi, per evitare gli sgambetti e gli errori, come se tutta questa fatica, che è tutta mentale, avesse bisogno di diventare fisica per contare qualcosa.
E allora questa fatica mentale, questa attenzione da primi tempi, questa concentrazione da insicurezza, dopo le 8 di sera si mette a schiacciare all'altezza dei polmoni, con un peso costante ma morbido, come se tutti i gatti di questo mondo si fossero accoccolati tra il mio collo e il mio ombelico per farmi riconoscere che sono serate in cui ho bisogno soltanto di coccole.
mercoledì, aprile 14, 2010
mercoledì, marzo 24, 2010

Dice gli svizzeri che Il Cisalpino l’è mea un treno svizzero.
Dice che è qualcosa in compartecipazione italiana, e si vede.
Ma per me, salire sul Cisalpino a Milano Centrale, è come il detective di Roger Rabbit quando entra a Cartoonia, come Dorothy che passa dal Kansas al Paese di Oz.
Milano Centrale io, questa volta, l’ennesima volta, ci sono arrivata su un regionale venticinque minuti di ritardo, con i sedili rotti e lo sporco da carbonio 14.
A Milano Centrale, questa volta, l’ennesima volta da quando hanno tolto le panchine perché così non ci dormono i barboni, tutta l’umanità era un piedi in attesa che il tabellone partorisse gli orari.
A me, l’umanità in piedi in attesa a Stazione Centrale, sempre mi ricorda la foto scattata a piazza Venezia il giorno dell’entrata in guerra.
A Milano Centrale c’erano dieci ragazze vestite di bianco che regalavano la cocacola light. E soltanto intorno a loro si potevano individuare dei rari sorrisi. Perché tutto il resto, invece, questa volta, l’ennesima volta, era solo nervoso, urla e telefonini.
Il caffè costa un euro e venti, il cappuccino due euro, l’edicola non dà informazioni. Al piano terra è sorto un centro commerciale, con gli stessi negozi della fiumara, con le stesse vetrine, con le stesse offerte.
Esco per cercare un bancomat.
Metto la testa nell’edicola.
Tra i giornali sono appoggiati tre passerotti.
L’edicolante alza lo sguardo da Libero, caccia via i passerotti, mi dice Uccelli di merda. Ma qui devono venire, a rompere i coglioni?
Poi mi indica il bancomat. Che ha cinque sportelli.
Quando torno in stazione il Cisalpino è sul binario.
Supero cinque ragazze tristi alte tre metri e venti, accompagnate da altrettanti cinquantenni firmati GianfrancoFerrè e salgo sul treno.
Dentro cambia il setting.
E’ come tuffare la testa sotto l’acqua mentre i vicini danno una festa.
Dentro al Cisalpino tutti parlano a voce bassa.
Anche gli italiani.
Anche quelli di Como, per dire. Quelli che magari prima avevo visto sbraitare al telefono mentre stringevano la borsa al passaggio di tre ragazze rom.
Però lì si adeguano al contesto.
Un contesto di gente che legge, che mette la vibrazione al telefono, che parla piano, che guarda fuori dal finestrino.
Allora io mi dico che il setting è tutto.
Il setting, in Italia, in questo momento, è inospitale, è brutto, è sporco, è depresso, è claustrofobico.
Capisco che il mio amore per la Svizzera ha tanto a che fare con la possibilità di pensarsi e collocarsi in uno spazio accogliente. Se vale per gli ospedali, per le classi, per gli asili, per gli uffici, per i centri commerciali. Se tutti lo dicono, che si sta meglio, si produce di più, in un posto bello. Se vale per i negozi, perché non dovrebbe valere per i paesi?
E così arrivo a Mendrisio.
E dico Ho fatto un viaggio meraviglioso, sul Cisalpino.
Ma va? - mi rispondono – pensa che il Cisalpino funziona così male che le ferrovie Svizzere hanno accostato un treno che fa la stessa tratta, da Chiasso a Zurigo. Ma pulito e in orario.
Dice che è qualcosa in compartecipazione italiana, e si vede.
Ma per me, salire sul Cisalpino a Milano Centrale, è come il detective di Roger Rabbit quando entra a Cartoonia, come Dorothy che passa dal Kansas al Paese di Oz.
Milano Centrale io, questa volta, l’ennesima volta, ci sono arrivata su un regionale venticinque minuti di ritardo, con i sedili rotti e lo sporco da carbonio 14.
A Milano Centrale, questa volta, l’ennesima volta da quando hanno tolto le panchine perché così non ci dormono i barboni, tutta l’umanità era un piedi in attesa che il tabellone partorisse gli orari.
A me, l’umanità in piedi in attesa a Stazione Centrale, sempre mi ricorda la foto scattata a piazza Venezia il giorno dell’entrata in guerra.
A Milano Centrale c’erano dieci ragazze vestite di bianco che regalavano la cocacola light. E soltanto intorno a loro si potevano individuare dei rari sorrisi. Perché tutto il resto, invece, questa volta, l’ennesima volta, era solo nervoso, urla e telefonini.
Il caffè costa un euro e venti, il cappuccino due euro, l’edicola non dà informazioni. Al piano terra è sorto un centro commerciale, con gli stessi negozi della fiumara, con le stesse vetrine, con le stesse offerte.
Esco per cercare un bancomat.
Metto la testa nell’edicola.
Tra i giornali sono appoggiati tre passerotti.
L’edicolante alza lo sguardo da Libero, caccia via i passerotti, mi dice Uccelli di merda. Ma qui devono venire, a rompere i coglioni?
Poi mi indica il bancomat. Che ha cinque sportelli.
Quando torno in stazione il Cisalpino è sul binario.
Supero cinque ragazze tristi alte tre metri e venti, accompagnate da altrettanti cinquantenni firmati GianfrancoFerrè e salgo sul treno.
Dentro cambia il setting.
E’ come tuffare la testa sotto l’acqua mentre i vicini danno una festa.
Dentro al Cisalpino tutti parlano a voce bassa.
Anche gli italiani.
Anche quelli di Como, per dire. Quelli che magari prima avevo visto sbraitare al telefono mentre stringevano la borsa al passaggio di tre ragazze rom.
Però lì si adeguano al contesto.
Un contesto di gente che legge, che mette la vibrazione al telefono, che parla piano, che guarda fuori dal finestrino.
Allora io mi dico che il setting è tutto.
Il setting, in Italia, in questo momento, è inospitale, è brutto, è sporco, è depresso, è claustrofobico.
Capisco che il mio amore per la Svizzera ha tanto a che fare con la possibilità di pensarsi e collocarsi in uno spazio accogliente. Se vale per gli ospedali, per le classi, per gli asili, per gli uffici, per i centri commerciali. Se tutti lo dicono, che si sta meglio, si produce di più, in un posto bello. Se vale per i negozi, perché non dovrebbe valere per i paesi?
E così arrivo a Mendrisio.
E dico Ho fatto un viaggio meraviglioso, sul Cisalpino.
Ma va? - mi rispondono – pensa che il Cisalpino funziona così male che le ferrovie Svizzere hanno accostato un treno che fa la stessa tratta, da Chiasso a Zurigo. Ma pulito e in orario.
lunedì, febbraio 22, 2010

In modi e in termini diversi, ma abbastanza da poter osare un confronto.
Uno è l'Uomo Ideale.
E' bello. E' molto bello.
E' ricco di famiglia.
E' un vero intellettuale di sinistra.
E' l'uomo che si potrebbe presentare ad una nonna e garantirsi la sua approvazione imperitura.
E' gentile.
E' interessante.
Ve l'ho già detto che è bello?
Ha prospettive di carriera.
E saprebbe ripararmi un computer così come una grondaia.
E io, con lui, mi annoio.
Mi annoio a morte.
Esco con lui e non so cosa dirgli.
Lo ascolto parlare ed è come essere ad un collegio docenti.
Non c'è modo di fare una battuta perchè è di quegli uomini che ti fanno sentire inadeguata a ridere.
Di quegli uomini che ti guardono e sembrano dirti Cazzo ridi, in questo mondo di merda?
E' un uomo che non avrei il coraggio di dirgli che mi piace saltellare per casa cantando Gennaro Cosmo Parlato o la Mannoia o un vecchio Guccini o Victor Jara, perchè è un uomo da Coltrane e Bjork.
E chi glielo dice che Fitzcarraldo mi ha fatto schifo? Che lascio salire il gatto sul tavolo? Che devo lavare i piatti da sabato?
Invece l'altro.
L'altro non sarebbe piaciuto a mia nonna.
Ma, del resto, chi sarebbe piaciuto a mia nonna?
L'altro è tutto un non. Non è bello, non è ricco, neanche di famiglia, non è un uomo da debutto in società, decisamente. Non è un uomo che mi viene di pensare da passarci la vita.
Ma mi fa ridere.
E sa come si parla ad una donna.
E mi fa le sorprese, mi porta al cinema come se fosse la cosa più desiderabile del mondo, e mi asciuga le lacrime.
Mi cucina una cena di antipastoprimosecondo squisitamente senza carboidrati. E' un uomo che sa come accarezzare la mia dieta.
Mi compra il pesce per il gatto.
Mi canta le ninnananne con la sua voce incredibile.
Mi parla in tre lingue.
Mi ripete continuamente quanto io sia incredibilmente bella.
Ogni tanto se ne va via, quando è a un passo dall'invasione dei miei spazi.
Mi chiama Biancanessie. E a volte Amore, ma con la leggerezza di un intercalare.
E poi ha scoperto che a Maggio non costa niente portarmi in un posto del mondo dove non sono mai stata.
Allora ha preso ferie. E mi ha detto di pensarci quanto voglio, a questa ipotesi di viaggio. Che lui, però, intanto faceva in modo di esserci, se alla fine io avrò voglia di partire.
Io, non so, sarà che sto emergendo dall'apnea Omm della Tempesta.
Che non mi potevo mai aspettare niente.
Che per vederci ci voleva l'agenzia di viaggio.
Che mi sentivo in colpa a chiedergli di esserci.
Che qualsiasi cosa potesse essere vagamente lungimirante era spaventoso per lui come per me una pantegana nel bagno. Che dopo tre anni di storia se avessi provato a proporgli, a febbraio, un viaggio a maggio gli sarebbe venuta una sincope.
Che non faceva che ripetermi che comunque, magari, lui poteva anche scegliere di partire, mica era sicuro che fosse ancora qui, domani.
Che siamo arrivarci a chiamarci amore con la lentezza e la pesantezza di un libro di Moccia.
Io in questo momento mi sento coccolata, mi sento desiderata e divertita da un uomo improbabile.
Per quelle cose della vita che ogni tanto si riarrotolano su sè stesse.
Io, dell'omm della tempesta, sono stata perdutamente innamorata e mai felice.
Adesso non sono innamorata, ma sono felice.
E penso che sia esattamente quello che mi ci vuole.
Mi sento come quando ti invitano a ballare il liscio alla festa dell'unità, che non sai dove guardare dalla vergogna ma in fondo ti diverti da morire. E poi ti fanno fare anche il caschè e ti manca il fiato e inizi a ridere come una scema, sulla pista del liscio.
E le evidenti differenze con l'Uomo Perfetto non fanno che rinforzare la mia tesi che la borghesia e il suo modello hanno capito ben poco della felicità.
martedì, febbraio 02, 2010
E anche stasera non riesco a tornare a casa a cena.
Sogno un minestrone con la pasta ma mi dovrò accontentare di un kebab da Mazzini, il pachistano.
Non si capisce come diavolo faccia a resistere, la mia dieta. Continuo a dimagrire, nonostante tutto. Forse ho il verme solitario.
La riunione delle 17,30 è iniziata alle 18.15 e terminata alle 19.00.
Alle 20.00 inizia quella dei soci del Circolo Luogo dell'Anima.
Una riunione è una cosa che serve a definire l'ora in cui ti vedrai la volta successiva.
Tra il primo e il secondo tempo avrei potuto correre a casa, aprire il frigo, rimirare il desolante vuoto e scoprire che era già l'ora di mettere piede fuori.
Quindi meglio Mazzini il kebab e il blog. Almeno sono seduta, da sola, nel silenzio.
E' un momento che sto talmente tanto a casa che giro con il deodorante, lo spazzolino le lenti a contatto di riserva e le salviettine struccanti nella borsa.
Gli agenti immobiliari, che sto frequentando con assiduità, mi chiedono Ma non vuole vedere un appartamento anche fuori dai vicoli? Potrebbe trovare delle offerte interessanti.
Io li guardo disperata.
L'unica possibilità di ritorno a casa almeno ogni 15 ore è una distanza massima di 500 metri tra la mia vita e il mio letto.
Io sono contro lo sviluppo sfrenato.
E il commercio delle idee.
E la crescita del PIL.
E tutte quelle cose lì.
Ma giuro.
Giuro che se una multinazionale, anche la più squallida, anche la nestlè, la monsanto, la microsoft, la united fruit, la union carbide, l'esselunga.
Giuro che se una multinazionale mette in commercio la passaporta, io divento capitalista.
mercoledì, gennaio 27, 2010

In forno cuoce la torta di mele.
E' il mio contributo alla cena di Natale del mio ufficio, che si terrà tra un'ora.
E con questo avete capito tutto dell'ufficio più bello del mondo.
Con le ricette io sono la figlia di andy warrol e di un'autistica.
Se c'è una cosa che mi viene bene, la replico all'infinito fino a quando non mi stufo.
Poi trovo un'altra ricetta da appendere sul frigo, e ricomincio da capo.
Sperate che non mi focalizzi mai sulla pizza con l'ananas.
Visto che è il giorno della memoria, però, a parlare di torte di mele nel forno mi sento scema (e schifosamente cinica).
Ma pensare di mettermi a parlare della banalità del male, dal momento che ci siamo immersi fino al collo, peggio che mai.
Allora mi rifugio nei nanetti di vita vissuta.
C'è stata una volta che ero una studentessa a scienze dell'educazione.
E avevo una professoressa di storia contemporanea progredito che era una nota etilista.
Mi presento a dare l'esame il 27 gennaio, con una curatissima tesina sulle attinenze tra la partecipazione popolare nella Resistenza e al G8 di Genova.
Tiè.
Eravamo in cinque, a dare l'esame, perchè la storia contemporanea, agli studenti di scienze dell'educazione, piace quanto un riccio tra l'alluce e l'indice.
Io ero la seconda.
La prima, tremante come un budino - perchè gli studenti di scienze dell'educazione emettono da soli il 58% del pil di ansia del paese - si siede davanti all'etilista.
La quale, come in una barzelletta, dice Signorina, prima domanda: che giorno è oggi?
....giovedi?
Si, si, che giorno del mese...
Aaaah, 27 gennaio.
E il 27 Gennaio è...
...
è...
...
è il giorno....
E' il giorno della memoria! (gli studenti di scienze dell'educazione guardano i telegiornali. Ndr).
Brava. Perchè il 27 gennaio è il giorno della memoria?
...
...
...
Ah, si. Perchè è il giorno che ci è stato Auschwitz.
Cosa fa questa ragazza, adesso?
La maestra.
Et voilà: la banalità del male.
giovedì, maggio 07, 2009
"E' tutto un complotto della sinistra"
"Va a sostituire il vecchio Cara, posso spiegarti tutto, non è come sembra"
"Va a sostituire il vecchio Cara, posso spiegarti tutto, non è come sembra"
(quel genio assoluto di Ellekappa, ieri su Repubblica)
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La verità così..quando non te l'aspetti
lunedì, aprile 27, 2009

Ma tra me e il nuovo post ci si è infilata l'attrice bionda, che ha lasciato un commento a tradimento, che parla del mio abbandono della Gloriosa Compagnia Teatrale Gramsci29.
E i commenti a tradimento, tu provi anche a rispondere con ironia e garbo, ma poi ti si frappongono tra le dita e la tastiera e ti impediscono di parlare di quello che avevi pensato anche solo cinque minuti prima.
La Gloriosa Compagnia Teatrale Gramsci29, io se ci ripenso adesso, mi sa che l'ho inventata perchè volevo cantare.
Poi ho capito che di cantare non ero capace ma mi sono detta C'è una cosa che so fare un po' meglio, ed è scrivere.
Così io ho portato avanti la Gloriosa Compagnia Teatrale perchè volevo scrivere.
E ho scoperto che neanche scrivere era così facile.
Insomma, a raccontarla così, Gramsci29 sembra una strada di fallimenti.
Invece, come sempre succede, a ripensarci adesso, mi viene in mente che anche Gramsci29, come quasi tutte le cose che mi sono venute bene, è stata la creazione di una rete sociale.
Ne conosco un po', di compagnie teatrali.
E tanti che fanno teatro, o l'hanno fatto.
E tanti che fanno teatro, o l'hanno fatto.
Finisce sempre nello stesso modo: ci si ammazza di botte. Fisiche, morali.
Il finale delle compagnie teatrali è sempre che ci si odia.
Il finale delle compagnie teatrali è sempre che ci si odia.
Un finale scontato, come si dice dei porno.
Non sempre ci si odia tutti, a volte ci si odia tra Montecchi e Capuleti, però, ecco, scecspirianamente non c'è mai un lieto fine, nelle compagnie teatrali.
Noi, invece, forse abbiamo finito una compagnia teatrale, ma almeno non siamo finiti noi. E, scusate, io per la mia testa malata, questo è più importante.
Ci litigo sempre con quelli che Un grande artista morto è meglio di un mediocre artista vivo, con quelli della candela che brucia da due lati.
Non lo so se ho ragione, ma io preferisco il vivo al morto, soprattutto se il soggetto in questione sono io.
Così, a vederla adesso, sono felice che siamo rimasti un gruppo vivo, nel senso della relazione, dell'amicizia, della costruzione di cose, piuttosto che un gruppo morto con un premio ubu sul comodino.
Con tutto che figurati, il premio ubu.
Poi, certo, c'è che a scendere dalla cassetta della frutta dell'attore, se non se ne trova un'altra subito lì che ci aspetta e ci valorizza, dispiace.
Dispiace anche tanto.
Io, ad esempio, mi mancano le prove.
Quelle nel salotto, sul terrazzo, nelle sedi dei partiti, nelle cantine dei vicoli.
Mi mancano le trasferte.
Mi manca quando c'era il regista palestinese che siamo stati a fare le luci e i suoni dell'ultima replica di C'est la guerre tenendoci per mano davanti al mixer.
Mi manca la volta che eravamo convinti che nel camioncino della trasferta l'aiuto regista ci tenesse la chetamina. E che ci avrebbero arrestati tutti.
Mi mancano i workshop.
E l'adrenalina.
Mi mancano le correzioni a pennarello sui fogli.
E potrei continuare per ore.
Mi manca tantissimo l'idea che quella cosa sul palco l'avevo scritta io.
Ci penso, a C'est la guerre, e realizzo che quel testo, io, è la prima cosa che ho iniziato e finito e poi l'ho guardata soddisfatta.
C'è qualcuno che lo sa, la maggiorparte no: io, se non c'era C'est la guerre, adesso, mica ero la persona che sono.
C'est la guerre è la mia Pasqua.
Sinceramente, devo infinite cose alla mia compagnia teatrale.
Le devo innanzitutto delle meravigliose amicizie.
Poi, le devo quella piccola parte di autostima che ho.
E una valigia di ricordi bellissimi, nel camerino già vecchio, tra il manifesto e lo specchio.
Le devo moltissimi, straordinari incontri.
Le devo la costruzione di rapporti adulti con una sorella e un fratello.
Ma le devo anche cose più sceme.
Come aver trovato il coraggio di guidare in autostrada.
E usare una sparapunti.
E mettere piede su un palco, anche se solo alla fine, a raccogliere gli applausi.
Queste sono cose che io non me le dimentico più.
E che non valgono tutti gli ubu del mondo, non valgono di essere rovinate dopo, alla ricerca di una professionalizzazione.
Però non è che debba essere così per tutti.
Sono io che sono così, che preferisco una mediocrità divertente ad una professionalizzazione autolesionista.
Quando mi sono trovata davanti al fatto che Gramsci29 era diventata una cosa troppo grande per essere un hobby, ho dovuto scegliere se era un lavoro.
E ho deciso di no.
In maniera poco chiara e confusa, ma ho deciso di no.
Mi dispiace tanto di avere fatto scendere altri dalla cassetta della frutta, mi dispiace veramente.
E se posso trovare il modo di farcele risalire, e giuro che ci penso, lo faccio volentieri.
Però non ho neanche un ricordo cattivo, nella mia valigia dell'attore.
Neanche uno rilevante, perlomeno.
Penso di essere riuscita a strappare un lieto fine: scusatemi, è che sono cresciuta con i film della Disney.
Ho fatto una scelta, un po' senza accorgermene, e ad un certo punto devo aver pensato che, per come sono fatta, non ho poi così bisogno degli applausi, ma ho infinito bisogno di persone che mi vogliono bene, e a cui voglio bene.
Così, ho chiuso la valigia prima che diventasse un vaso di pandora.
Così, ho chiuso la valigia prima che diventasse un vaso di pandora.
Però.
Se anche ho smesso di inchinarmi ripetutamente,
mercoledì, aprile 08, 2009
E' stata una decisione così difficile, che ho fatto le tre di notte.
E così ho potuto inaugurare il correttore per occhiaie che ho comprato ieri alla profumeria ribassata.
Mi viene da pensare che una donna che compra un correttore per occhiaie senza avere davanti la prospettiva di una notte di follia, dovrebbe sapere cosa la aspetta.
Una notte d'insonnia e pianti, la aspetta.
Però adesso che sono appena tornata da un pranzo meraviglioso nel mio posto preferito, che è un bar biologico, e adesso che ho scoperto una bancarella solitaria in una piazza sconosciuta, di una signora piemontese che fa la marmellata di ortiche con le ricette dei frati, adesso che sono tornata da questo pranzo meraviglioso in cui ho mangiato insalata tomini freschi e arancie, e dove ho parlato con la mia amica LediLovli, adesso sto un po' meglio.
Perchè ho scoperto che hai voglia a non credere alle congiunzioni astrali, ma ieri io e la mia bellissima amica LediLovli ci siamo rotte le palle delle nostre irrisolte relazione affettive praticamente nello stesso istante.
Ed entrambe abbiamo pensato che adesso basta, che ci meritiamo di meglio.
Perchè - dice lei - devo accettare che lui si scopi le altre e poi mi dica Scusa, l'ho fatto solo per capire che sei tu la donna che amo, tu tu tu, solo tu?
Perchè - dico io - devo accettare la relazione con un uomo che mi dice Scusa se non ti chiamo amore?
L'ha detto lei, e non io come si sarebbe potuto aspettarci, che non siamo le mamme di nessuno, che non possiamo passare la nostra vita a coccolare i traumi degli uomini di cui siamo innamorate, che non possiamo stare lì ad aspettare, aspettare, aspettare Godot.
E a dirci, Poverino, non riesce proprio ad innamorarsi di me.
Poverino, non riesce proprio ad essermi fedele.
Poverino adesso basta.
Oppure, poverino si, ma senza di me.
Perchè io ho la mia marmellata di ortiche.
E il mio bar della posta vecchia.
E non ne posso più, non ne posso più di non sentirmi abbastanza.
Io, che la mia scena preferita di ogni film è sempre quando lui corre e corre e corre e poi l'abbraccia come se l'aspettasse da tutta la vita. Sempre che piango, in quelle scene lì.
Io che ho una visione dell'amore alla Bollywood.
Io, che sono una romatica d'altri tempi, che sogno da sempre la dichiarazione d'amore del professor Baher a Jo March, lui pieno di fango, lei scola d'acqua.
Io non posso immolarmi ad un amore che ha bisogno di un'ora per avviarsi, come i 386.
E che si comporta come la rana nel pozzo.
E che mi fa scacco matto: O così o niente.
Io non lo posso accettare.
Sono quattro anni che vado in terapia per non sentirmi lo scarto del mondo.
Non posso accettare di essere l'amore di scorta.
E' l'anno più terribile della mia vita, dal punto di vista emotivo, e sto accettando un uomo che mi dice Più di così non posso.
Sono io quella che non può.
Sono io quella che non può giocare al ribasso con gli affetti, ora.
Perchè ho una vita che sta giocando al ribasso, a togliermi gli affetti che ho. Non posso tagliarne via altri, non posso essere innamorata di un macellaio dei sentimenti. Proprio quest'anno, tra l'altro.
Così mi sa che è meglio se mi vado a comprare altri dieci stick correttori per occhiaie.
Perchè mi sa che non dormirò molto.
Però, cazzo.
Punto.
E così ho potuto inaugurare il correttore per occhiaie che ho comprato ieri alla profumeria ribassata.
Mi viene da pensare che una donna che compra un correttore per occhiaie senza avere davanti la prospettiva di una notte di follia, dovrebbe sapere cosa la aspetta.
Una notte d'insonnia e pianti, la aspetta.
Però adesso che sono appena tornata da un pranzo meraviglioso nel mio posto preferito, che è un bar biologico, e adesso che ho scoperto una bancarella solitaria in una piazza sconosciuta, di una signora piemontese che fa la marmellata di ortiche con le ricette dei frati, adesso che sono tornata da questo pranzo meraviglioso in cui ho mangiato insalata tomini freschi e arancie, e dove ho parlato con la mia amica LediLovli, adesso sto un po' meglio.
Perchè ho scoperto che hai voglia a non credere alle congiunzioni astrali, ma ieri io e la mia bellissima amica LediLovli ci siamo rotte le palle delle nostre irrisolte relazione affettive praticamente nello stesso istante.
Ed entrambe abbiamo pensato che adesso basta, che ci meritiamo di meglio.
Perchè - dice lei - devo accettare che lui si scopi le altre e poi mi dica Scusa, l'ho fatto solo per capire che sei tu la donna che amo, tu tu tu, solo tu?
Perchè - dico io - devo accettare la relazione con un uomo che mi dice Scusa se non ti chiamo amore?
L'ha detto lei, e non io come si sarebbe potuto aspettarci, che non siamo le mamme di nessuno, che non possiamo passare la nostra vita a coccolare i traumi degli uomini di cui siamo innamorate, che non possiamo stare lì ad aspettare, aspettare, aspettare Godot.
E a dirci, Poverino, non riesce proprio ad innamorarsi di me.
Poverino, non riesce proprio ad essermi fedele.
Poverino adesso basta.
Oppure, poverino si, ma senza di me.
Perchè io ho la mia marmellata di ortiche.
E il mio bar della posta vecchia.
E non ne posso più, non ne posso più di non sentirmi abbastanza.
Io, che la mia scena preferita di ogni film è sempre quando lui corre e corre e corre e poi l'abbraccia come se l'aspettasse da tutta la vita. Sempre che piango, in quelle scene lì.
Io che ho una visione dell'amore alla Bollywood.
Io, che sono una romatica d'altri tempi, che sogno da sempre la dichiarazione d'amore del professor Baher a Jo March, lui pieno di fango, lei scola d'acqua.
Io non posso immolarmi ad un amore che ha bisogno di un'ora per avviarsi, come i 386.
E che si comporta come la rana nel pozzo.
E che mi fa scacco matto: O così o niente.
Io non lo posso accettare.
Sono quattro anni che vado in terapia per non sentirmi lo scarto del mondo.
Non posso accettare di essere l'amore di scorta.
E' l'anno più terribile della mia vita, dal punto di vista emotivo, e sto accettando un uomo che mi dice Più di così non posso.
Sono io quella che non può.
Sono io quella che non può giocare al ribasso con gli affetti, ora.
Perchè ho una vita che sta giocando al ribasso, a togliermi gli affetti che ho. Non posso tagliarne via altri, non posso essere innamorata di un macellaio dei sentimenti. Proprio quest'anno, tra l'altro.
Così mi sa che è meglio se mi vado a comprare altri dieci stick correttori per occhiaie.
Perchè mi sa che non dormirò molto.
Però, cazzo.
Punto.
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La verità così..quando non te l'aspetti,
Radio Nessie
martedì, febbraio 10, 2009

Hanno detto i miei adolescenti provvisori, oggi, che quando si è nelle situazioni di emergenza è più facile aiutare gli sconosciuti.
Perchè non ci stai tanto lì a pensare - hanno detto - o li aiuti o è troppo tardi.
Penso sia un pensiero bellissimo e consolante, soprattutto perchè veniva dalla II Guantanamo, la classe di Scilla e Cariddi.
Perchè non ci stai tanto lì a pensare - hanno detto - o li aiuti o è troppo tardi.
Penso sia un pensiero bellissimo e consolante, soprattutto perchè veniva dalla II Guantanamo, la classe di Scilla e Cariddi.
Ed è un pensiero corretto, in fondo, e il G8 qui a Genova ne è la dimostrazione, con tutti i vecchietti che ci hanno aperto le porte di casa.
Però è anche un pensiero falso e lo è soprattutto per le istituzioni.
Non si ringrazieranno mai abbastanza i padri costituenti che hanno fatto in modo che in questo paese di ignoranti retorici non si potesse legiferare sulla base della spinta emotiva.
I passaggi obbligati che il Parlamento è costretto a fare per promulgare una legge evitano sostanzialmente quello che il fascismo definiva Il potere calato dall'alto, il consenso creato dal basso. I limiti del nostro Parlamento ci hanno salvato il culo, questa settimana.
Però è anche un pensiero falso e lo è soprattutto per le istituzioni.
Non si ringrazieranno mai abbastanza i padri costituenti che hanno fatto in modo che in questo paese di ignoranti retorici non si potesse legiferare sulla base della spinta emotiva.
I passaggi obbligati che il Parlamento è costretto a fare per promulgare una legge evitano sostanzialmente quello che il fascismo definiva Il potere calato dall'alto, il consenso creato dal basso. I limiti del nostro Parlamento ci hanno salvato il culo, questa settimana.
Perchè per le istituzioni, una situazione di emergenza - reale, percepita, gonfiata, che importa? - è la scusa per limitare le libertà ed accentrare il potere. V per Vendetta.
Io sarò pessimista - no, io sono pessimista - ma mi chiedo cosa potrebbe succedere se in questo paese succedesse davvero qualcosa di grosso.
Ci ho pensato domenica, dopo aver letto la Provincia Varese dove puoi trovare termini come "tartufescamente", ma anche giornalisti che sono tornati a scrivere come i cronisti della prima guerra mondiale. Cose del tipo: "...mentre la madre, sola e addolorata, attende la fine di questa storia che troppo a lungo ha pesato sulle sue spalle, segnandola nelle rughe del viso e nel dolore dell'anima...".
Ovviamente la Provincia Varese per dire.
E così ho pensato che se riescono a tuffare il popolo italiano nella retorica della morte e della vita, nella separazione tra buono e cattivo, nel totale distacco dalla vera notizia e nel voyerismo con la storia di una ragazza in coma da 17 anni, cosa potrebbero fare se ci fosse, non so, una Beslan, o un teatro intero preso in ostaggio, o un aereo contro ad una torre?
Di cosa sarebbe capace la retorica, davanti ad un evento veramente tragico, in un paese invaso da Porta a Porta?
Io penso che sia il momento di rispolverare il cinismo, come arma di difesa.
Per essere pronti a non farci sommergere dalla retorica del dolore quando il potere individuerà la prossima vittima da farci piangere.
E lo dico io che piango per Biancaneve e i cuccioli di tigre dei documentari del National Geographic.
Ma sono sicura che solo il cinismo potrà salvarci da questa invaione di dissennatori che vogliono farci diventare tristi per una persona che non conosciamo, che vogliono farci immedesimare nelle vittime sconosciute.
Io non ci sto.
Mi rifiuto di pensare che la scelta del papà di Eluana avrei forse potuta farla io - E allora con che coraggio, eh, con che coraggio accetteresti di staccare la spina di un tuo familiare?! - e mi riufiuto di percepire la violenza dei quartieri della periferia di Roma come qualcosa che riguarda anche me.
Mi riguarda il rispetto e l'affetto nei confronti delle persone che soffrono, ma la loro paura non può diventare la mia, e neanche la loro paranoia.
Dobbiamo tirare fuori le unghie e il cinismo prima di trovarci sempre davanti al dolore degli altri e mai al nostro.
giovedì, gennaio 22, 2009
giovedì, agosto 14, 2008
ESTEMPORANEA CARTOLINA DI VIAGGIO

"Si si, spesso ci vengo in Italia, perchè l'Italia è bella, e io per un pezzo sono italiano.
Ma l'Italia è bella per cantare Firulì firulà Quel mazzolin di fiori.
Per lavorare invece no.
L'Italia per lavorare è vacche morte".
(un intagliatore italo-francese, dispensatore di saggezza in una stazione di confine)
venerdì, giugno 06, 2008

"...Io non faccio sport. Tutti quelli che conosco che facevano sport, sono morti"
"E' solo un caso"
"Io non ci credo, al caso".
("Il Divo")
("Il Divo")
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La verità così..quando non te l'aspetti
mercoledì, maggio 07, 2008

"...Io dico che alla NASA lavorano meno che in questo ufficio!"
(qualcuno che oggi si sente come me, nello stesso corridoio)
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lunedì, aprile 21, 2008
DILEMMA MORALE 2

Sto per andare via da questo ufficio, che oggi stranamente mi pesa.
Tell me why i dont like monday...Ma uso gli ultimi cinque minuti per rispondere a tutti in una volta sola, sulla Diatriba Morale. Devo decidere entro domani, sui settantacinque euro.
E, ve lo dico, se decido di tenermeli mi sentirò in colpa. Perchè lo so che Paolino, Fede e Manuela hanno le loro ragione. Buone. Ottime.
Ma poi penso anche ad una frase che mi ha detto Stakanov, ieri in macchina, che è una frase di Theodore Roosevelt, mica Lenin.
Teddy diceva "La democrazia sono due lupi e un agnello che decidono cosa c'è per cena".
Ecco, se decido di ridare i soldi alla prof, io sarò un correttissimo, democraticissimo agnello.
Come sempre, che gli agnelli li facciamo sempre noi, e ce ne vantiamo fino all'ora di cena.
Se invece me li tengo, i settantacinque euro, secondo me sono sempre un agnello, ma un agnello vagamente scorretto che va a Mantova a vedere i fiori di Loto.
Penso che l'importante sia soltanto non diventare lupo.
Forse è di questo che possiamo continuare a vantarci.
martedì, marzo 25, 2008
lunedì, febbraio 18, 2008

Soltanto in un paese così ricco e così tecnicizzato come l'Italia
ci può essere così tanta ignoranza
(Giovanna Marini)
...ERA UN CANTO POPOLARE, ALLEGRO, STRARIPANTE...
Due giorni di ritiro, come la nazionale, sulle colline toscane a cantare con Giovanna Marini alla casa del popolo.
A cenare due primi, affettati&formaggi, vinsanto e cantucci.
A cenare due primi, affettati&formaggi, vinsanto e cantucci.
E canti popolari, con Giovanna Marini a capotavola che lancia la gara di stornelli.
E noi che ci vergognamo, e ripieghiamo su un tranquillizzante Addio Lugano Bella, ma insomma.
Due giorni che la musicoterapia non è una stronzata e il lunedi parte facile.
Due giorni, che cantare come i contadini è un'arte, per nulla rivoluzionaria ma estremamente concreta. Un'arte con le radici, dalla quale noi cittadini siamo esclusi per voce, per storia, per modulazione. Ed è proprio per questo che è bello cantare, stonando e scornandosi con i modi, con le variazioni. Fare per due giorni qualcosa che non si è capaci di fare.
Eravamo cinquanta, in questa stanza della casa del popolo, e tutti ci sentivamo un po' cantanti. E prendevamo la terza, l'ottava, financo la quarta che è difficilissima.
Ma la nostra cultura non soltanto non è l'unica, non soltanto non è la migliore, ma soprattutto ha più buchi del groviera.
Così dopo due giorni, quando ci siamo alzati tutti in piedi per un meraviglioso canto delle confraternite siciliane - che funziona soltanto se si sa ascoltare gli altri, se si sente dagli altri quando è il momento di cambiare, di attaccare, di respirare - noi, cinquanta cittadini, il canto delle confraternite non siamo stati capaci di cantarlo.
Perchè il karaoke ha ammazzato il canto collettivo, perchè forse sappiamo ancora essere un punto di riferimento per gli altri, ma non siamo più capaci di capire come gli altri possano essere un punto di riferimento per noi.
Abbiamo provato a cantare come una confraternita, e non ci siamo riusciti neanche un po'.
Perchè, insieme ai nomi delle mele e al ciclo delle stagioni, abbiamo lasciato da qualche parte in campagna anche la capacità di ascolto degli altri.
Due giorni che la musicoterapia non è una stronzata e il lunedi parte facile.
Due giorni, che cantare come i contadini è un'arte, per nulla rivoluzionaria ma estremamente concreta. Un'arte con le radici, dalla quale noi cittadini siamo esclusi per voce, per storia, per modulazione. Ed è proprio per questo che è bello cantare, stonando e scornandosi con i modi, con le variazioni. Fare per due giorni qualcosa che non si è capaci di fare.
Eravamo cinquanta, in questa stanza della casa del popolo, e tutti ci sentivamo un po' cantanti. E prendevamo la terza, l'ottava, financo la quarta che è difficilissima.
Ma la nostra cultura non soltanto non è l'unica, non soltanto non è la migliore, ma soprattutto ha più buchi del groviera.
Così dopo due giorni, quando ci siamo alzati tutti in piedi per un meraviglioso canto delle confraternite siciliane - che funziona soltanto se si sa ascoltare gli altri, se si sente dagli altri quando è il momento di cambiare, di attaccare, di respirare - noi, cinquanta cittadini, il canto delle confraternite non siamo stati capaci di cantarlo.
Perchè il karaoke ha ammazzato il canto collettivo, perchè forse sappiamo ancora essere un punto di riferimento per gli altri, ma non siamo più capaci di capire come gli altri possano essere un punto di riferimento per noi.
Abbiamo provato a cantare come una confraternita, e non ci siamo riusciti neanche un po'.
Perchè, insieme ai nomi delle mele e al ciclo delle stagioni, abbiamo lasciato da qualche parte in campagna anche la capacità di ascolto degli altri.
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