venerdì, giugno 11, 2010



Ventitre e quaranta.
Letto sul soppalco.
Portatile.
Caldo.
Un gatto di fianco che ronfa.

Sono tornata a casa un’ora fa dopo quattordici ore di lavoro.
Quattordici e mezza, a dire la verità.
Ma ne ho segnate quattordici, sul foglio ore, che metterci la mezza mi sembrava di far dell’ironia.
La fine della scuola, gli studenti non si rendono mica conto di cosa voglia dire, mentre si tirano l’acqua e la farina.
Per noi vuol dire un’attività per dodici bambini per due pomeriggi di doposcuola a settimana per quattro settimane per nove mesi, circa, da recuperare, riordinare e mettere nel quaderno delle attività.
Quattordici ore di lavoro solo oggi.

Lavorare con i bambini io credo che se non sei un po’ scemo, un po’ folle, un po’ autolesionista e non condisci il tutto con un grande senso di responsabilità, è meglio se fai un altro lavoro.
Perché di tre che eravamo lì stasera a mettere in ordine fotografie ed elaborati, a scrivere l’appendice didattica e a decorare le pagine con i ghirigori, a nessuna ci è venuto in mente che potevamo anche non farlo.
Che potevamo andare a scuola, domani, dare i bacini della Buona estate e poi finirla lì.
Mettere i lavori in una cartellina e via andare.
Neppure quando abbiamo girato intorno alla boa delle dodici ore non stop, neanche durante l’inevitabile crollo post pizza.
Anche quando vedevamo allontanarsi la speranza di poter finire entro le nove, avevamo ben presente il diritto dei nostri bambini di vedere tutto il loro impegno raccolto, trascritto valorizzato e spiegato alle mamme e ai papà. E la responsabilità di essere noi quelli che dovevano custodire il loro lavoro di un anno e, alla fine, darlo indietro. L’importanza di conservare la fiducia in vista dell’anno prossimo.
Per questo lavoriamo con i bambini.
Sceme.
Autolesioniste.
Ma, in compenso, responsabili.
E’ un cocktail micidiale: ne uccide più dei barbiturici.

Così adesso sono a letto, sul soppalco, fa caldo, il gatto è sceso e miagola contro una farfallina della notte più veloce di lui.
Sono stanca come un monatto nella Milano del Manzoni.
Però adesso sono le 23.56 e ho ancora la forza di scrivere.
Qualcosa vorrà dire.
Se avessi fatto quattordici ore di qualsiasi altra cosa, di qualsiasi altro lavoro, sarei una donna depressa.
Invece non vedo l’ora di arrivare, domani, dai miei dodici piccoli ariani, e consegnare i quaderni.
Però.
Lo scolpisco sulla pietra eterna del blog.
Che sia chiaro.
Se l’anno prossimo, che i bambini diventano 22, la ragazza fuori moda lascia tutto il lavoro da fare alla fine, e pensa di avermi di nuovo in questo after hour della didattica, io lo giuro che la impicco ad un lampione e le appendo ai piedi tutto il mio senso di responsabilità e tutta la mia sana follia, per velocizzarne la morte.
Il mio autolesionismo finisce dove inizia quello degli altri.

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