lunedì, aprile 27, 2009




Volevo raccontarvi tutta un'altra cosa.
Ma tra me e il nuovo post ci si è infilata l'attrice bionda, che ha lasciato un commento a tradimento, che parla del mio abbandono della Gloriosa Compagnia Teatrale Gramsci29.
E i commenti a tradimento, tu provi anche a rispondere con ironia e garbo, ma poi ti si frappongono tra le dita e la tastiera e ti impediscono di parlare di quello che avevi pensato anche solo cinque minuti prima.

La Gloriosa Compagnia Teatrale Gramsci29, io se ci ripenso adesso, mi sa che l'ho inventata perchè volevo cantare.
Poi ho capito che di cantare non ero capace ma mi sono detta C'è una cosa che so fare un po' meglio, ed è scrivere.
Così io ho portato avanti la Gloriosa Compagnia Teatrale perchè volevo scrivere.
E ho scoperto che neanche scrivere era così facile.
Insomma, a raccontarla così, Gramsci29 sembra una strada di fallimenti.
Invece, come sempre succede, a ripensarci adesso, mi viene in mente che anche Gramsci29, come quasi tutte le cose che mi sono venute bene, è stata la creazione di una rete sociale.

Ne conosco un po', di compagnie teatrali.
E tanti che fanno teatro, o l'hanno fatto.
Finisce sempre nello stesso modo: ci si ammazza di botte. Fisiche, morali.
Il finale delle compagnie teatrali è sempre che ci si odia.
Un finale scontato, come si dice dei porno.
Non sempre ci si odia tutti, a volte ci si odia tra Montecchi e Capuleti, però, ecco, scecspirianamente non c'è mai un lieto fine, nelle compagnie teatrali.

Noi, invece, forse abbiamo finito una compagnia teatrale, ma almeno non siamo finiti noi. E, scusate, io per la mia testa malata, questo è più importante.
Ci litigo sempre con quelli che Un grande artista morto è meglio di un mediocre artista vivo, con quelli della candela che brucia da due lati.
Non lo so se ho ragione, ma io preferisco il vivo al morto, soprattutto se il soggetto in questione sono io.
Così, a vederla adesso, sono felice che siamo rimasti un gruppo vivo, nel senso della relazione, dell'amicizia, della costruzione di cose, piuttosto che un gruppo morto con un premio ubu sul comodino.
Con tutto che figurati, il premio ubu.

Poi, certo, c'è che a scendere dalla cassetta della frutta dell'attore, se non se ne trova un'altra subito lì che ci aspetta e ci valorizza, dispiace.
Dispiace anche tanto.

Io, ad esempio, mi mancano le prove.
Quelle nel salotto, sul terrazzo, nelle sedi dei partiti, nelle cantine dei vicoli.
Mi mancano le trasferte.
Mi manca quando c'era il regista palestinese che siamo stati a fare le luci e i suoni dell'ultima replica di C'est la guerre tenendoci per mano davanti al mixer.
Mi manca la volta che eravamo convinti che nel camioncino della trasferta l'aiuto regista ci tenesse la chetamina. E che ci avrebbero arrestati tutti.
Mi mancano i workshop.
E l'adrenalina.
Mi mancano le correzioni a pennarello sui fogli.
E potrei continuare per ore.
Mi manca tantissimo l'idea che quella cosa sul palco l'avevo scritta io.

Ci penso, a C'est la guerre, e realizzo che quel testo, io, è la prima cosa che ho iniziato e finito e poi l'ho guardata soddisfatta.
C'è qualcuno che lo sa, la maggiorparte no: io, se non c'era C'est la guerre, adesso, mica ero la persona che sono.
C'est la guerre è la mia Pasqua.

Sinceramente, devo infinite cose alla mia compagnia teatrale.
Le devo innanzitutto delle meravigliose amicizie.
Poi, le devo quella piccola parte di autostima che ho.
E una valigia di ricordi bellissimi, nel camerino già vecchio, tra il manifesto e lo specchio.
Le devo moltissimi, straordinari incontri.
Le devo la costruzione di rapporti adulti con una sorella e un fratello.
Ma le devo anche cose più sceme.
Come aver trovato il coraggio di guidare in autostrada.
E usare una sparapunti.
E mettere piede su un palco, anche se solo alla fine, a raccogliere gli applausi.
Queste sono cose che io non me le dimentico più.
E che non valgono tutti gli ubu del mondo, non valgono di essere rovinate dopo, alla ricerca di una professionalizzazione.

Però non è che debba essere così per tutti.
Sono io che sono così, che preferisco una mediocrità divertente ad una professionalizzazione autolesionista.
Quando mi sono trovata davanti al fatto che Gramsci29 era diventata una cosa troppo grande per essere un hobby, ho dovuto scegliere se era un lavoro.
E ho deciso di no.
In maniera poco chiara e confusa, ma ho deciso di no.

Mi dispiace tanto di avere fatto scendere altri dalla cassetta della frutta, mi dispiace veramente.
E se posso trovare il modo di farcele risalire, e giuro che ci penso, lo faccio volentieri.
Però non ho neanche un ricordo cattivo, nella mia valigia dell'attore.
Neanche uno rilevante, perlomeno.
Penso di essere riuscita a strappare un lieto fine: scusatemi, è che sono cresciuta con i film della Disney.

Ho fatto una scelta, un po' senza accorgermene, e ad un certo punto devo aver pensato che, per come sono fatta, non ho poi così bisogno degli applausi, ma ho infinito bisogno di persone che mi vogliono bene, e a cui voglio bene.
Così, ho chiuso la valigia prima che diventasse un vaso di pandora.

Però.
Se anche ho smesso di inchinarmi ripetutamente,
e ho fatto smettere voi, soprattutto.
Vi ringrazio - sul serio - infinitamente.

1 commento:

il lettore padovano ha detto...

"...che preferisco una mediocrità divertente ad una professionalizzazione autolesionista."


Bellissimo.