lunedì, luglio 28, 2008
venerdì, luglio 25, 2008
Questa è una richiesta alla reception dell'albergo SaasQualcosa, dove arriverò martedi sera.
mercoledì, luglio 23, 2008
lunedì, luglio 21, 2008
domenica, luglio 20, 2008
sabato, luglio 12, 2008
Lui dice che i segnali c’erano tutti e che io non li ho voluti vedere.
Probabile, viste le mie aspettative per il week end e il fatto che la stanza di vita quotidiana ha poi invece significato sentirsi dire da Stakanov “La coppia mi soffoca. Ti lascio”.
E così mi trovo adesso, che è sabato pomeriggio, e lui se n’è andato con un saluto di schiena, attraverso i suoi quattro zaini di vagabondaggio emotivo, a ripensare a sei mesi che non lasciano traccia di sé, se non nell’ostinato tentativo di costruzione di qualcosa da cui lui scappava.
Sono qui che realizzo, adesso, di non avere neanche una foto con lui.
Sono le cose stupide che rispecchiano meglio la realtà.
La mia stupida ostinazione nel vedere le cose che funzionavano, sempre meno, sempre più circondate nell’assedio delle sue cose da fare.
La mia disperata ostinazione nel pensare che erano le contingenze, era lo spirito padano del lavoratore. E adesso che scrivo piangendo come non ho pianto mai, vedo la realtà come non l’ho mai voluta vedere. Che l’importante era scappare da me.
La mia ostinazione autolesionista, quando avrei dovuto prendere io il coraggio e dirgli mesi fa che non era vita, una vita di assenze e di fughe.
E non importa, non importa che lui abbia passato un’intera notte al porto, con un’alba ad illuminare il mio pianto isterico, a dire che non sono io il problema.
Che anzi, abbiamo ipotecato i suoi casini per sei mesi di fronte alla bellezza del nostro stare insieme.
Non cambia nulla sentirmi dire che l’ansia, che la mancanza di respiro lo prendeva alla gola nelle mie assenze, all’idea di coppia e non alla sua dimostrazione.
Non cambia nulla, nel momento in cui la sua scelta è quella di scappare da me, che forse non sono il problema, ma certo ho collaborato alla sua emersione.
Così ho passato 20 ore ad imbruttirmi nel pianto e nella supplica, per tentare di conservare un’ora di più, una notte di più, la vacanza che sognavo avrebbe messo a posto tutto, dopo mesi di latitanza.
Ma sono stata veramente una pessima analizzatrice della realtà, a non capire che sarebbe stato proprio l’avvicinarsi della svezia, l’idea di quel mese insieme che lui aveva inventato per noi, quando ancora poteva pensarci al plurale senza terrorizzarsi da solo, a farlo scappare definitivamente, inseguito dalle sue paure che non ha mai avuto intenzione di risolvere.
Perché è tanto più comodo, un paravento di irrisolvibilità.
E adesso sono qui, con la sua assenza, con le cose che si è dimenticato, con il cuscino che profuma del suo sonno infantile, e senza neanche un ricordo che possa fissarsi nella memoria come il regalo di una storia d’amore lunga sei mesi.
Tonnellate di scappatoie, di tentativi, di controsensi, di doppi messaggi.
E il suo biglietto sullo specchio.
venerdì, luglio 11, 2008
giovedì, luglio 10, 2008
Quelli già in fila prima che avessimo allestito il banchetto
quelli che Ma l'inchiostro non va via
quelli che Posso farne una anche per mio marito? Ho la delega morale!
quelli che Lascio l'impronta del medio, che è più indicato
quello che fa il provocatore e nessuno se lo caga
quelli che hanno i bambini che non vogliono sporcarsi con l'inchiostro
quelli che nell'inchiostro ci cacciano tutta la mano
quelli che vanno dal prefetto tenendosi per mano,
la mano sporca d'inchiostro.
quelli che non lasciano il cognome, che sono senza permesso di soggiorno,
quelli che passano per caso e si fermano
quelli che si accorgono che, a stare ad un banchetto per la raccolta delle impronte,
si incontra ancora l'italia con gli occhi asciutti nella notte scura.
martedì, luglio 08, 2008
Dopo quelle dei bimbi rom e sinti, dopo quelle di Moni Ovadia, Andrea Camilleri, Dacia Maraini, Ascanio Celestini ed altri, anche a Genova ci autoschediamo!
Rivolgiamo quindi questo appello a tutte le forze politiche di opposizione, alle forze democratiche, alle associazioni, ai media, ai singoli ai quali chiediamo di aiutarci a fermare questo scempio della vita civile e democratica del nostro paese, in cui il razzismo è ormai pratica di governo.
Arci, Rete Controg8 per la globalizzazone dei diritti, centro ligure di documentazione per la pace, rete laica genovese, Confederazione COBAS Liguria
lunedì, luglio 07, 2008
Ho pensato che c'è un criterio nella scelta delle persone di cui mi circondo, delle persone di cui mi sono sempre circondata, di cui amo la presenza e l'amicizia. Un criterio inconscio.
Il criterio è l'anacronismo.
Anarchici da Prima Internazionale, studenti da '68, suffragette ottocentesche, partigiani della prima ora, coerenze da anni '50, musicisti da anni '70, romanzieri alla Zola, teologi luterani, cori da mondine, teatro alla Brecht.
Questi siamo noi.
Siamo un Quarto Stato eterogeneo.
Scoprire un filo conduttore, una chiave di lettura della Comune-ty, ma anche di chi fa parte della mia vita da lontano - come un Tenero Regista, o un necessario, meraviglioso Zio d'adozione - mi ha dato respiro, dopo una settimana sull'orlo di un baratro emotivo, con i piedi nella palude di una crisi di nervi.
Ho pensato, nella luce di un'alba milanese, che i commenti al mio post soffocante, i messaggi, le mail, gli amici in soccorso, le barelle dell'amicizia, non avrebbero potuto non arrivare, perchè facciamo parte dello stesso quadro, e siamo tutti lì. Quelli più vicini, che ci sono sempre. Quelli un po' più piccoli, nello sfondo, ma che ci sono, comunque.
Basta cercarli, basta guardare bene.
E' un pensiero che dà sicurezza, come un'alba che arriva persino a Milano.
Sapere che ci siete, a modo vostro, a modo nostro.
Todo modo.
E nel mio Quarto Stato eterogeneo, cercato e raccolto in questo week end, non poteva mancare il bambino in primo piano.
Quattro chili di neonata da coccolare, sabato pomeriggio: una pet-therapy.
Sono tornata così tranquillizzata da pulire casa, domenica, anche solo per l'idea di trovarla pulita.
Così tranquillizzata da sopportare anche la devastante notizia che stanno spuntando i ratti in vico dolcezza.
Così tranquillizzata che è lunedi, ma va bene lo stesso.
venerdì, luglio 04, 2008
Che passa le sue serate ad ascoltare il mio delirio al telefono. Che ha raccolto abbastanza delle mie lacrime da riempirci un lago alpino e renderlo un’attrattiva turistica, che sa già che piangerò, dopo tre minuti di telefonata, quando inizia ad incrinarsi la voce.
Perché io in questo periodo ho una malattia autoimmune, come i casi irrisolvibili del dottor house. Non c’è medicina, non c’è cura. Non a breve.
Stakanov, quando poi perde la pazienza, dice Non ti basta mai, qualsiasi cosa faccia non è abbastanza.
Io penso anche che lui ci metta del suo a non fare abbastanza, ma è vero anche che non mi basterebbe comunque.
Sono una tossica dell’affetto.
Mi attacco alla presenza di Stakanov come ad una dose, e un week end mi dà sollievo, un week end tagliato bene.
Ma poi, l’assenza. La lontananza. Per un po’ vado avanti a metadone – messaggini, telefonate.
Poi, non basta neanche quello.
E esco di testa.
Se voi non avete mai visto un tossico dell’affetto non lo potete immaginare, cosa sia il mio uscire di testa.
E’ come trainspotting.
E pur di avere la mia dose di affetto faccio qualsiasi cosa.
Tipo spaccare il vetro di una macchina per prendere l’autoradio.
Tipo rubare i soldi della pensione della nonna.
Cose così.
Cose che poi ti senti in colpa.
Cose che lo sanno tutti che sei stato tu, e comunque non avresti voluto farlo.
Ma non ce la fai, non ce la fai a resistere.
Io sono così. Gli spacco le palle sulle assenze, sui ritardi, sulle distrazioni, sui weekend mancanti, su quelli stanchi, sulle scelte, sulle piccole cose.
E poi mi ucciderei.
Mi staccherei la lingua e la farei alla griglia il sabato sera.
E mi scuso, mi scuso tantissimo.
Ma poi, alla crisi d’astinenza successiva, è di nuovo uguale. E’ l’argenteria, la cassaforte, le sterline d’oro.
E lui di nuovo ascolta, per ore, la mia crisi, il mio malessere, subisce i miei furti affettivi e poi accoglie le mie scuse, le mie centinaia di scuse.
Credo che nessun altro avrebbe resistito quanto lui.
E’ il recordman della sopportazione.
Solo Stakanov sa quanto sto male. E comunque neanche lui lo sa.
C’è poi da dire che la storia con Stakanov, per altri versi, non aiuta.
La trama è quella di una tossica innamorata di Muccioli.
Perché lui non è che non sia vero che non c’è, che è assente, che è in ritardo, che è distratto, che manca i week end, che è stanco, che sceglie altro, che ha altre cose, migliaia di altre cose.
E’ proprio verissimo, e anche lui lo dice.
Ma ecco, se io mi fossi disintossicata, sarebbe un’altra vita, sarebbero assenze diversi, pesi diversi, magoni diversi.
Invece così, è come se mi rubasse le dosi e le nascondesse nei posti dove non posso trovarli, finchè non decide che è il momento di concedermi una bustina di affetto.
Ma il problema, è ovvio, non è lui.
Non è lui per niente.
Ed è per questo che io mi ostino a non lasciarlo.
(inspiegabilmente lui si ostina a non lasciare me).
Questo è un outing.
E’ l’outing del giovedì notte alle 2.42, dopo l’ennesima, violentissima crisi d’astinenza.
Dopo un pianto solitario appoggiata al frigo.
L’outing dice che sto malissimo, e non c’è niente di razionale.
Indipendentemente da quello che Stakanov può fare, ma anche ognuno di voi, io mi sento fottutissimamente sola, fottutissimamente triste, fottuttissimamente di merda.
Mi sento abbandonata, e vi giuro che non c’entra niente che sia vero o no.
Ma soprattutto non lo dico mai a nessuno - solo a Stakanov, che è l’eletto della sopportazione - anche se ci incontriamo per sbaglio e io mi sto grattando la guancia. Quelli che intuiscono, intuiscono. Ma io non lo ammetto neanche dietro a precisa domanda.
Lo dico solo a lui, da mesi, nel modo sbagliato.
A voi vi dico che il problema è che lui lavora troppo, tutto lì.
L’outing è per dire, a Stakanov, ma anche a chiunque stia leggendo, che ogni cosa carina, ogni gentilezza, ogni tenerezza, ogni inclusione, in questo momento è il mio metadone.
E ogni assenza, ogni esclusione è una fitta di dolore. Anche quando sono io che scappo, per non rubarvi l’autoradio.
E ci sarà, ci sarà il momento della disintossicazione.
Ma per adesso rubo le pensioni, le sterline d’oro e anche le dentiere.
Conosco un rigattiere degli affetti.
Scusatemi, tanto. Sono fuori controllo.
Stasera scappo dal Tenero Regista Jp.
Che sa come coccolare le mie crisi.
Poi torno.
E ci riprovo.
Ma starò ancora male, tantissimo, e a lungo.
C’è soltanto che adesso lo ammetto, che è un problema mio.
martedì, luglio 01, 2008
Sono perseguitata dalla Piccola Sfiga.
La Piccola Sfiga, è bene dirlo subito, non è una preoccupante macumba, una nuvola temporalesca ad un metro dalla testa, un rito voodoo con spilloni infuocati.
La Piccola Sfiga è, appunto, Piccola.
Ma non per questo, credetemi, meno fastidiosa.
Anche perchè la Piccola Sfiga ha un modus operandi da serial killer: in costante progressione.
E' martedi, e la Piccola Sfiga ha già fatto capolino due volte, questa settimana.
La prima volta è stato il tipico dramma della cittadina: stavo entrando nella doccia, ignuda e cruda, quando sento Toc!, vicino al calorifero. Abbasso lo sguardo, e sul pavimento si agita una scolopendra gigante, l'incredibile hulk delle scolopendre.
Volevo morire.
L'ho spruzzata col cif.
L'ho annegata nel'acqua ossigenata
E l'ho coperta con il cestino.
Poi, non ho chiuso occhio, sperando che morisse, ma immobile.
Lunedi mattina, ciondolante e stressata, l'amara scoperta.
Sposto il cestino con il manico della scopa, pronta a darle il colpo di grazia, forte della luce del giorno, ma la scolopendra non c'è più.
In tre - io, mia moglie, il suo ospite notturno - abbiamo analizzato il bagno a fondo, ma hulk è sparito.
Non è una buona notizia.
Ricomparirà da un posto innaspettato, nel momento peggiore.
E io morirò d'orrore.
Poteva bastare, c'era già abbastanza sfiga da galleggiarci una settimana.
Ma stamattina saluto mia moglie in partenza estiva e me ne vado con animo casalingo a buttare la spazzatura.
Apro il bidone con la mano sinistra.
Tento il gesto atletico del Lancio ad effetto della spazzatura e con il mignolo della mano destra scontro il bordo del bidone.
Che mi morde, con i suoi denti affilati.
Mi morde tantissimo.
Cazzo di male.
Gocciolando sangue come una foca da pelliccia, mi trascino verso la farmacia, e sporco il pavimento lucido con il mio dna, dalla porta scorrevole al bancone.
Chiedo acqua ossigenata e cerotto e esco a disinfettarmi sul marciapiede, sotto gli sguardi orripilati dei passanti.
Il farmacista mi chiede Ma come ha fatto?
Sono stata azzannata da un bidone della spazzatura.
Ah.
Il senso dell'ironia difetta ai farmacisti.